L’agricoltura è una questione d’arte”[1] dichiarava Joseph Beuys. L’idea della relazione tra scultura, natura e lavoro sono gli aspetti caratterizzanti dell’operato di Raffaele Vitto che si esplica nel mettere in relazione la creazione contemporanea alla mansione tradizionale familiare che lo lega alla campagna e ai suoi ritmi.
“3 quintali di Pane” è il titolo dell’opera che racconta un consapevole utilizzo dei doni della natura e della sua ricchezza e della possibilità di generare un cambiamento nelle sue forme osservandone il risultato in continuo mutamento. Vitto parte da un elemento simbolico e concettuale quale la terra a cui aggiunge la farina e da questo impasto prende forma e nuovo significato un’installazione composta da pezzi di pane, l’alimento che comunemente associamo alla quotidianità, allo sfamare e alla famiglia. Nel cortile all’interno della Fondazione viene presentata quest’opera dal carattere effimero e site-specific che riprende la forma delle cassette utilizzate come contenitori agroalimentari nel mercato all’ingrosso: un blocco di pane stratificato che innesca riflessioni rispetto alla distribuzione dei beni primari e sottolinea le dinamiche che regolano la società globalizzata. Le risorse della terra vengono sfruttate e i loro frutti sprecati secondo regole che non scandiscono i cicli della natura ma piuttosto garantiscono la commercializzazione e il capitalismo specchio della nostra società.[2]
Vitto si contrappone a queste leggi per ridare alla natura la possibilità di scandire il ciclo vitale che è essa stessa a stabilire: i materiali deperibili utilizzati per realizzare il lavoro, aiutati dai numerosi agenti atmosferici che possono intervenire, sono destinati a tornare all’origine e a rientrare all’interno di questo andamento ciclico che a sua volta genererà nuova vita. L’opera pensata in funzione del luogo ospitante e delle caratteristiche dell’habitat, si avvale di materiali pre-esistenti modellati attraverso le mani dell’artista che rilasciano un’impronta transitoria ed effimera[3]. La bellezza della natura è intesa come apertura di responsabilità, non solo teorica ma soprattutto espressiva, di nascita e cambiamento. In questa “liberazione verso lo spazio”[4] e con lo spazio Vitto agisce rinnovando forme destinate a modellare l’ambiente e l’atmosfera circostante abbandonandosi a un tempo non lineare ma piuttosto stagionale e di ritorno alla terra.
Laura Rositani
[1] tratto da “Joseph Beuys. Cos’è l’arte”, Castelvecchi, Milano 2015, p. 145. Si tratta della conversazione, risalente al 1979, tra Beuys e l’allora giovanissimo critico Volker Harlan (Dresda, 1938)
[2] Come afferma Latouche, la globalizzazione è la «mercificazione totale del mondo» da S. Latouche, La Megamachine. Raison techno-scientifique, raison économique et le mythe du Progrès. Essais à la mémoire de Jacques Ellul, La Découverte, Paris, 1995; p. 32
[3] Marino A., Vinella M., “Coltivare l’arte. Educazione Natura Agricola”, Franco Angeli, Milano 2018, pp. 28-32
[4] Boccioni U., Manifesto tecnico della scultura futurista. Manifesto futurista, Milano, 11 aprile 1912.

